Non lasciarsi scivolare addosso
di Gennaro Iannelli
A volte ne cerco la complicità, ma lui corre sempre troppo veloce: il tempo. Anche per fare le cose più semplici, la fantomatica “routine”, di tempo spesso ne pretendo troppo.
La prima infanzia
Che fossi disprattico l’ho sempre percepito e, se chiedeste a mia madre, vi risponderebbe che l’ha sempre saputo. Certo, non conosceva la disprassia nei suoi dettagli “clinici” (e chissà quanto ancora dovremo imparare in futuro), ma ha sempre avuto la sensazione che il suo “tesoro” (quanto odio certi vezzeggiativi) fosse diverso rispetto agli altri bambini.
Ricordo, in modo un po’ confuso, una visita dalla pediatra quando avevo cinque o sei anni. La dottoressa mi porge un foglio e mi dice “Vediamo cosa sai disegnare di bello”. Io comincio a tracciare le prime linee e disegno i contorni di due bambini che giocano in mezzo a due alberi: vicino a loro, una casa. Inutile dire che la fisionomia dei soggetti era piuttosto elementare: un cerchio per disegnare la testa dei bambini, due puntini neri a simboleggiare gli occhi, un triangolo per disegnare il naso, una mezza linea abbozzata per la bocca e una specie di rettangolo per il corpo. Quattro linee stilizzate per disegnare gambe e braccia, ma quello che mi ricordo di più sono i piedi: due specie di cerchietti, tanto che i miei compagni della materna me lo chiedevano sempre: “ma che, li fai camminare sulle rotelle?” (magari ai miei omini piacevano, e piacciono tutt’ora, i pattini, chissà…). Consegno il disegno alla dottoressa, lei lo guarda, poi mi squadra e dice: “Davvero disegni così? Mia figlia ha tre anni e disegna molto meglio”. Mia madre esce tutta turbata dallo studio e comincia a dirmi che forse dovrei impegnarmi di più, io le dico che disegnare per me non è così importante e mio padre è dello stesso avviso, dunque non si dà molto peso alla cosa, d’altronde non è poi davvero così importante saper disegnare bene. Mi dimentico di dire che la pediatra, ovviamente, non fa alcun cenno alla disprassia ma solo alla mia pigrizia, quindi al massimo servirà impegnarsi un po’ di più.
L’anno dopo iniziano le elementari e i problemi divengono sempre più palesi. La prima cosa che si deve imparare a fare è tracciare le lettere in corsivo: una passeggiata, penso. Ma non se credi di svolgere bene l’esercizio e invece scrivi solo degli obbrobri. In particolare, ricordo che i miei compagni andavano spediti: a,b,c,d,e… fino alla n! Mentre io ero ancora alla a. “Maledizione!”, “Ma ti muovi?”, “Come devo fare con te?”. Queste le parole della maestra Emma che mi sono rimaste più impresse. Prima o poi la richiamerò perché è stata una grande insegnante e, se solo avessimo saputo indirizzarla sin dal principio, avrebbe saputo dove intervenire, ne sono certo. Comunque sia, la prima elementare finisce e tutti si abituano alla mia calligrafia sbilenca, al mio non saper incolonnare perfettamente i numeri, al mio colorare fuori dai bordi. Tanto il rendimento non è poi così male, mi impegno con storia e geografia e poi ci sono i temi: la gioia della maestra Emma. Mi ricordo i suoi elogi, le letture di fronte alla classe, piccole soddisfazioni.
Già, ma fuori? Fuori rimani sempre il ragazzino che non sa giocare a niente: né a lanciare la palla, perché la fai sempre cadere, né a giocare ad “acchiapparello”, perché tanto corri così piano che tocca sempre a te stare “sotto” e inseguire gli altri. Non potevi andare in bici perché: “Che vergogna, con le rotelle a sette od otto anni”. E poi c’era il calcio: quanta passione ho nutrito per questo sport e quanto dolore non poterlo praticare come avrei voluto. Ero completamente scoordinato, non sapevo palleggiare, né “stoppare” un pallone. Volevo frequentare una scuola calcio, ma la paura mi ha sempre frenato, la paura del confronto, del fallimento e, con essi, della frustrazione. Così il tempo, che da perfetto gentiluomo sembrava avermi permesso di raggiungere i miei coetanei tra i banchi, continuava a farmi rimanere un passo indietro fuori.
Com’è iniziata:
Veniamo al punto: 2008, quinta elementare. Mia madre, al lavoro, getta un occhio su un articolo che parla di questa sconosciuta: la disprassia. Legge la descrizione e, a sentire le parole che avrebbe detto poi alla fisioterapista, “mi sembrava di leggere il ritratto di mio figlio”. Non mi ricordo cosa dicesse esattamente quell’articolo ma, di sicuro, parlava di tutte le difficoltà scolastiche e motorie cui gli individui disprattici vanno incontro. Torna a casa, per metà allarmata e per l’altra metà come se si fosse tolta un peso e decide di farmi intraprendere un percorso terapeutico. Prima mi fanno visitare in un centro a Pisa, dove mi diagnosticano la disprassia, allorché viene indirizzata presso un centro a Senise (in Basilicata, dove ho abitato sino a pochi anni fa), un centro nel quale sarei stato seguito da personale altamente qualificato. In realtà non ho un ottimo ricordo di quell’esperienza, non mi sono portato dietro molto tranne una serie di umiliazioni, con una terapista o logopedista che continuava a ripetermi “Secondo me hai un’autostima troppo alta, ti farò vedere io…”. Ogni volta, ogni singola seduta con lei si era trasformata in un calvario. Mi obbligava a formare delle figure con blocchi geometrici di legno che io non sapevo assemblare nel modo giusto, né capivo come poterlo fare. Probabilmente non lo capirò mai.
Il supplizio termina nel 2011 quando, con una licenza media ormai in tasca, sono ritenuto capace di “camminare da solo” (non ho mai capito bene in che senso, visto che tutt’oggi non mi ritengo pienamente autonomo). Intanto il divario con i miei coetanei si fa sempre più ampio e ai miei occhi inizia a diventare impalpabile. Loro iniziano ad uscire in comitive folte, comprendenti anche persone esterne alla classe mentre io, che ho sempre avuto difficoltà a relazionarmi con gli altri (aspetto sul quale tornerò), comincio a chiudermi in me stesso e in casa, ad eleggere la musica come compagna di vita (ascoltandola, non suonandola, perché chi ha mai provato a suonare?), a non voler vedere nessuno e ad essere etichettato come lo “sfigato” della situazione: quello che non ha amici, che non ha una ragazza (che dramma a quattordici o quindici anni!), che ti fa vergognare quando esce con te e così via. Come potergli dare torto, in fondo? Io non sono un tipo molto loquace, non ho fascino né modo di pormi, quello che ti rende tanto attraente ed eroico. Comincio a chiudermi, dunque, e così non riesco a sentire davvero mia la Terra che mi ha dato i natali. Non ricordo bene i luoghi, non riesco ad orientarmi bene (e lo scarso senso di orientamento, mi è stato spiegato, deriva da questa benedetta disprassia), mi sento più piccolo, inferiore a tutti i miei coetanei sia dal punto di vista delle esperienze, sia dal punto di vista fisico. Eppure continuo, nonostante tutto continuo.
Ho letto di recente un’opera di Richard Matheson, “Tre millimetri al giorno”, basata proprio sull’istinto di sopravvivenza in una situazione disperata e paradossale. Il protagonista, alto all’inizio del racconto 190 cm, è costretto da una nube radioattiva a rimpicciolire progressivamente tre millimetri al giorno sino a scomparire. Pur nella consapevolezza di un destino ineluttabile però, Scott, il protagonista, continua ostinatamente a sopravvivere, sino a che un finale enigmatico sorprende il lettore. Mi piace soprattutto un passaggio di questo testo: “L’uomo può sopportare tutto, tranne la pietà di un altro essere umano”. E’ vero: l’autonomia è la meta più alta verso cui si possa tendere. Ad alcuni può sembrare banale, semplice e scontato ma è la cosa che per me più conta: essere padroni di sé senza compromessi; potersi donare, conservando comunque la propria indipendenza.
La pietà: sicuri che sia un uomo?
E io l’ho sperimentata quella sensazione di pietà “maligna” mista a derisione, che in altri termini può essere definita commiserazione. Siamo nel 2016, Berlino, ultimo anno delle superiori. La gita definitiva, quella in cui si deve pensare solo a divertirsi, perché poi ci saranno gli esami. Eppure, anche lì io ho paura di smarrirmi in quella grande città tedesca (come lo Scott Carey del romanzo di Matheson che, diventato minuscolo, è costretto a vagare in uno scantinato che gli appare come il “Grand Canyon”). Per questo motivo, tengo sempre d’occhio il mio gruppo e sono spesso costretto a seguire i professori (che umiliazione, penso), anche perché mi ritrovo a non aver realmente legato con alcun compagno. Fa niente, mi dico, passerà anche questa (l’inerzia, un altro errore madornale!). E invece in quella gita accade una svolta: siamo in metropolitana, di notte, io me ne sto in disparte come sempre. Un ubriaco tenta di approcciare in modo brusco una mia compagna di classe, e il mio professore di educazione fisica è costretto ad intervenire. Passato il pericolo, un’altra mia compagna commenta: “Tanto ci sarebbe stato Gennaro a salvarci”. Il mio professore ribatte con risatina ironica: “Sicura? Se vi affidate a lui state fresche…”. Forse aveva ragione, ma immaginate l’impatto di questa frase su un ragazzo che aveva già rinunciato a prendere la patente, perché terrorizzato dalle manovre e dalla prospettiva di doversi muovere nel traffico. Da quel momento, il finimondo: mi autoimpongo una dieta (pesavo 75 kg), che mi porterà a scendere sotto i 50. Comincio a fare palestra “fai da te” perché, nella mia psicologia annebbiata, penso di poter dimostrare di essere un uomo. Nulla di tutto ciò mi ha apportato dei benefici. Sino a quando non partiamo tutti per Ferrara nell’ottobre del 2016, dove inizio a frequentare l’Università e i miei iniziano a lavorare (o meglio ricominciano, dopo aver entrambi perduto la propria occupazione). La mia vita continua a svolgersi per inerzia, con l’aggravio di appesantire quella di mia madre con ulteriori inutili preoccupazioni, a causa del mio peso che diminuiva a vista d’occhio.
A Ferrara
Ed eccoci arrivati a Ferrara da dove vi scrivo e dove, questo nove luglio, ho completato la Triennale in scienze della comunicazione. A pensarci bene, per certi versi non credo che sia stata la scelta migliore per me. Ho provato a collaborare con uno dei quotidiani più prestigiosi al livello locale, ma la mia difficoltà a muovermi in modo veloce, soprattutto in una grande città, unita ad altri fattori quali l’inesperienza (sia di vita che lavorativa), mi hanno portato a scrivere un articolo di prova pessimo per il caporedattore (da cui non ho mai ricevuto risposta), e a fare, in tal modo, solo una brutta figura nei loro confronti. Spero un giorno di potergli davvero chiedere scusa, e di potergli offrire una collaborazione valida, magari rendendoli fieri di me.
Per il resto, la vita è davvero migliorata, soprattutto nell’ultimo anno. Ho conosciuto molte persone, ho il mio gruppo di amici e, sebbene sussistano diverse difficoltà e ancora molti mi guardino come se fossi uno stralunato, devo ammettere che mi sono integrato di più. Alcuni amici della Basilicata, che avrò il piacere di ospitare a breve, mi hanno chiesto un po’ di tempo fa: “Perché non torni? Si sente la tua mancanza”; “davvero?”, ho pensato. Qualunque sia la risposta, se tornerò, lo farò da uomo affermato, sereno, umile, più preparato, magari da padre, nonostante una diagnosi di azoospermia (sì, anche quella) ma, soprattutto: più avido di vita! Già, perché in questo periodo ho anche lavorato come bidello in un liceo della zona. Ma volevo farlo davvero? NO! Mi sono fatto un po’ “trascinare” dai miei genitori, allettato comunque dalla prospettiva di fare una prima esperienza lavorativa. Eppure i miei sogni sono altri: diventare un cronista sportivo o lavorare nel mondo della pubblicità. Ce la farò? A prescindere da tutte le difficoltà, ce la devo fare, perché questi sono i miei sogni e devo realizzarli. Andrò a Perugia a prendere la Magistrale in “Comunicazione pubblicitaria” e nel frattempo proverò a prendere questa benedetta patente (magari con navigatore incorporato in macchina!). Proverò finalmente ad essere me stesso, un soggetto autonomo.
Non lasciate che i vostri figli, o che voi stessi, semmai viviate la mia stessa situazione, rinuncino ai propri sogni per timore degli ostacoli. Il tempo è un galantuomo e come tale sa restituire tutto ciò che ci ha sottratto. Ma come ogni galantuomo, ha anche un proprio codice d’onore: non transige che lo si sprechi in maniera così sciocca: aspettando che le cose cambino da sole. Prendete in mano la vostra vita e incoraggiate anche i vostri figli ad essere vitali, a sconfiggere le avversità e a raggiungere (o almeno tentare) tutti i traguardi che si sono imposti.
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